giugullare

il viaggio per cui si parte non è mai il viaggio da cui si ritorna

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detesto gli ingegneri

Wednesday, April 30, 2008

Signor Rancore

Mi chiamo rancore.
Mi alzo, ogni mattina, e ogni notte mi corico.
Non dormo mai.

In realtà ho un altro nome, di quelli belli, che metteresti a tuo figlio. Un nome normale, che si mimetizza con gli altri in un elenco telefonico.
Ma quello non sono io. Quello è la maschera.
Mi alzo ogni mattina. Mi lavo, mi vesto, arrivo allo specchio e mi guardo.
“click”
E’ il primo click della giornata: ci sono volte in cui lo trovo irritante, altre in cui mi penetra nell’anima come una coltellata.
Sono brutto.

Solitamente passo una mano sulla cravatta, quasi ad accarezzarmi, cercando di distogliere almeno lo sguardo da quella immagine riflessa: la mente non ci si distoglie mai.
Scendo, rampe su rampe di scale- non prendo quasi mai l’ascensore, son basso, quasi nano, e provate voi a farvi scorreggiare in faccia- e scivolo su quei gradini come melma.

Arrivo per strada, mi butto tra la gente. Tengo la testa bassa, guardo l’asfalto, le cicche, i Loro piedi; guardo qualunque cosa che non siano Loro. Ma è inevitabile, ci sono corpi da scostare, strade da attraversare, so già che prima o poi dovrò incrociare i loro sguardi.

Sento profumi. Femminili. L’olfatto è il più bastardo dei sensi che qualcuno chiamatosi Dio mi ha dato. Se ne resta li, appollaiato nella mia testa, dannatamente vicino al cervello, e lascia sempre la porta di casa aperta. Gli odori, i profumi, entrano come gruppi di sconosciuti che improvviasamente ti ritrovi in soggiorno.
L’olfatto è come avere un citofono attaccato direttamente ai nervi. Non riesco a filtrarlo, mi frega sempre. Sento profumi femminili e, prima di rendermene conto, alzo lo sguardo.

“click”
Donne. Belle, bellissime. Giovani. Mi passano accanto senza nemmeno vedermi, a volte penso di essere un fantasma tra loro. Poi alcune mi vedono: sono costrette a guardarmi per qualche maledetta ragione…e allora preferirei essere un fantasma. Leggo nei loro occhi più facilmente che in un annuncio mortuario: non c'è mai scritto niente che si avvicini all’attrazione.
Altre cose invece sono ripetute come in un tema di storia.

Stringo le mascelle, nella tasca stringo i pugni finchè le mani non tremano mentre cerco in qualche modo di strangolare la rabbia. Ricaccio la testa verso il basso. La sprofondo tra le spalle come il percussore di una pistola.

Poi arrivo alla metropolitana. Ogni giorno. Ogni, eterno giorno. Salgo e, se sono fortunato, riesco a mettermi nell’angolo tra un vagone e l’altro. Maschi a cui la natura, senza ragione alcuna se non quella folle del caso, ha dato altezza, capelli, lineamenti regolari, mi si spingono contro, mi spostano senza fatica. Mi schiaffeggiano chiassosamente con la loro palese superiorità. Bestie umane su cui il sorriso si appoialla come un grosso, schifoso insetto mi circondano.
“Click” “click” “click”
Tutto questo quando va bene, sai? se va male finisco tra scolaresche o fottuti adolescenti. Mi guardano apertamente, ridendo, ridacchiando, provando cinque secondi di pena in attesa che io scenda per fare dieci minuti di battute sui nani.

Non dormo mai di notte. Ma non c’è notte in cui non sogni di strangolarli.
Poi scendo. Testa bassa. Anzi, prima che la battuta la faccia tu, “testa PIU’ bassa del solito”.
Corro, una palla di grasso con due gambette da maiale che zampetta tra i comuni mortali.
Entro nel negozio- “E’ arrivata?”- All’assenso di un uno qualunque prendo il pacco e risgambetto fuori.
Arrivo al lavoro. Sudato.

Prendo il cartellino, lo passo nella timbratrice, da destra a sinistra, e non c’è giorno in cui non mi chieda che differenza ci sarebbe nel passare una lametta sui polsi, nello stesso modo.

Arrivo alla mia postazione. Un fottuto metro quadro di compensato con una cuffia, un microfono e un calendario che mi uccide giorno per giorno.
Metto la cuffia: immediatamente il leggero ringhio dell’elettricità dietro le casse mi assale. “Non sono in silenzio, non sono spenta, e tra poco ti tornerò a crocifiggere come ogni giorno. Per sempre” Trattengo il vomito e premo il pulsante di ok.

Per sei ore, per 570 euro al mese, ignoti figli di puttana mi urlano contro, mi danno del delinquente, ladro, bastardo. Lavoro nel servizio reclami di una grande azienda. Un’azienda che non mi ha neanche assunto: ha chiesto a un’altra azienda di trovar qualcuno da “prestare”.
E quei coglioni mi urlano che IO gli voglio fregare i soldi, che non compreranno mai più da me…DA ME…
Il mio cervello va al Signor Azienda, e me lo immagino sempre sperduto in qualche isolotto del pacifico, con troppe poche mani per palpare tutte le ragazze che lo circondano, intento a ridere.
Ridere, ridere.

Click. Clickclickclick.

Ci sono giorni in cui arriva in “ufficio” il supervisore. Giovane, pieno di capelli, con lo stesso acume intellettuale della penna con cui ha scritto hemingway ma modesto quanto un superattico in centro.
SuperVisore flirta con cinque o sei “colleghe co co co”, finge di interessarsi ai problemi che qualcuno senza nome gli presenta…e poi arriva da me.
“non ci siamo, amico mio” dice scuotendo pensieroso il suo oggetto smarrito a forma di testa. “non ci siamo, continuano ad arrivarmi lamentele dai clienti con cui tratti. Lamentele sul Tuo Comportamento” Lo dice come un prete costretto ad ascoltare i tuoi peccati, che se fosse per lui tu potresti essere un santo, ma sei così testa di cazzo che ti condanni all’inferno da solo.
“cosa devo fare con te?- i suoi occhioni azzurri mi guardano pensierosi, il che di per se è miracoloso, e finisce il suo “intervento motivazionale sul personale” con il solito: “questa azienda è un grande marchio e una grande squadra, devi essere fiero di farne parte. Una grande squadra funziona proprio perché tutti, al suo interno, sono consci del loro ruolo fondamentale, unico ed insostituibile, dall’amministratore delegato all’ultimo degli impiegati…anche tu”
Poi sua pacca sulla spalla, mio stop alla mandibola che si lancia a tranciare la prima falange, e il SuperVisore si allontana tra le postazioni, verso nuove incredibili avventure.

Di notte non dormo. Ma, indovina cosa sogno…

Click.
Prendo il pacco, poso la cuffia. E’ arrivata sera.

La sera torno a casa, stesso percorso di prima, nuova tortura. Coppiette in giro, ragazze bellissime si appoggiano ad altri uomini come una tenda di seta si appoggia al vento della sera. Guardo le loro forme che non toccherò mai, guardo i loro sguardi, che non avrò mai, guardo Loro, gli altri.
Vedo per lunghi, interminabili istanti, come sarebbe la mia vita se non fossi rinchiuso in questo schifoso involucro da varme ma nei loro corpi fieri. Vedo tutto ciò che una nascita sbagliata mi ha negato. Sento le vene del collo trasformarsi in tanti serpenti pieni zeppi di veleno.

Torno a casa. La casa del proprietario, di mio c’è solo l’affitto. Apro la porta, entro, resto per qualche tempo al buio.
Mi spoglio. Forse mantengo un minimo di civiltà e mi metto una tuta addosso.
Do da mangiare alla mia pancia, che mi ringrazia tendando di compensare l’assenza di verticalità del mio corpo con uno sviluppo orizzontale esponenziale. A volte rutto, a volte no.

Accendo la televisione, resto in piedi tanto so che durerà poco. Belle donne. Nude o quasi. Begli uomini. Soldi, belle macchine, più grosse del mio appartamento. Alcune sere si raggiunge il culmine quando becco il programma/film con il nano incluso “Oh guarda, gli stan facendo fare la parte del pirla o del bastardo…cariiiino”.

Tiro il telecomando, ma non sono mai così intelligente da tirarlo con convinzione. Arriva al video, ci sbatte contro, cade terra e li resta come a dire “tutto qui? Sckizzetto.”
Domani sera stessa scena.

“Click.”

Vado a letto. Mi sdraio e non provo nemmeno a chiudere gli occhi. Solitamente resto li ad aspettare.
Ma non stasera. Con la mano arrivo al pacco. Lo apro.

Mi chiamo Rancore.
Ma voi chiamatemi Signor Rancore: non pensavo una pistola brillasse così tanto nel buio.

petalo




il petalo che abbandona il fiore,
lo fa in volo.
Quanta leggerezza in quell'addio.



Thursday, April 10, 2008

l'omicida innocente

Il vento non era così forte da portare via le foglie agli alberi, figuriamoci se aveva la forza di strappare i pensieri dalla mente dell'uomo.
I pensieri- pensava l'uomo- sono malattie tanto quanto il cancro, l'ulcera, un'influenza trascurata.
I pensieri lo stavano schiacciando, lentamente, inesorabilmente.

Il rumore non fu assordante. Non fu neanche lontanamente paragonabile all'importanza del momento.

L'uomo azzardò qualche passo, ne incerto, ne sicuro, più per il bisogno di non stare fermo che per l'esigenza di andare da qualche parte. Il vento lo lasciò fare.
I pensieri lo seguirono in religiosa processione.

I passi divennero a poco a poco più decisi, più convinti. Poco alla volta i passi divennero una direzione. Per i passi, tutto sommato, la vita non era così complicata: ci si allontana, ci si avvicina, finchè si è in movimento non c'è verso di restare insieme. Quando si è troppo vicini, quando si è insieme, ci si ferma.
O si perde l'equilibrio.

La pistola, La Rivoltella- così la chiamava sempre suo nonno- decisamente non aveva niente a che spartire con il concetto di equilibrio, ed il fatto che fosse stretta nella mano dell'uomo, obiettivamente, non era un buon segno.

Ora, senza troppo filosofeggiare, i motivi per cui una pistola si trova in una mano anziché in un posto con meno dita e con più saggezza non sono molti. O ti vuoi sparare, o vuoi sparare a qualcuno. O vuoi fare tutte due le cose, necessariamente con un ordine preciso. Stop. Punto. Tutto il resto è accademia.

Il fatto che a terra ci fosse un corpo- attenzione: un corpo, non più una persona- dava molta forza alla seconda ipotesi. Potremmo sindacare a lungo su chi era quel corpo, su cosa rappresentava per l'uomo, o se il mondo ne avrebbe sentito la mancanza...potremmo, ma non servirebbe a molto a questo punto. C'era sangue.

Il sangue sembrava riluttante ad uscire da quel corpo. Giocherellava attorno alla pelle, al foro (piccolo, preciso, bruciato) senza però accennare ad allontanarsi. Sangue giovane, senza dubbio, Sangue inesperto e non del tutto convinto che fosse una buona cosa essere "fuori" anzichè "dentro".
Ma comunque sangue.

“L'ho ucciso- pensavano i pensieri dell'uomo- l'ho ucciso e lui è morto” I pensieri erano così forti, i concetti che partorivano così boriosi, che dalla testa conquistarono ogni cosa fino alle mani, facendole tremare. Probabilmente questo assaggio di potere affascinò i pensieri, perchè raddoppiarono l'intensità delle emozioni ed il tremito arrivò alle gambe con la violenza di una cassa di bottiglie piene di latte che cade per una scala. Le gambe franarono sul mondo.

Ovviamente la testa, che gli stolti insistono a definire elemento dominante del corpo, seguì senza profferir parola il destino degli arti “inferiori” e l'uomo si trovò a terra.
Violentemente.

Il tonfo sull'asfalto quasi non fu avvertito dall'uomo, che non aveva fatto nemmeno il gesto con le mani di pararsi. L'essere con la pistola in pugno restò per qualche istante a terra, scomposto, quasi nella caricatura della propria ombra in una giornata di sole basso. Le ondate di pensieri lo travolgevano come infiniti mari parlando di morte, di vita, di cambiamento. In mezzo a quel folle turbinio di concetti, troppo grandi per un essere destinato a diventare polvere, qualcos'altro iniziò ad emergere.

Gioia.

L'uomo si aggrappò a quella sensazione come un bambino alla coperta. Si rialzò con una certa eleganza, guardò, per la prima volta dopo lo sparo, il cielo.
La pistola rimase a terra come un'amante tradita.

“Ora sono libero- tuonavano i pensieri- ora posso scegliere”. Le lacrime si commosero a tal punto da quelle dichiarazioni, che si tuffarono sul viso dell'uomo nel più dolce dei suicidi.
Il sorriso si stagliava netto.

I pensieri cominciarono un rutilante carosello di immagini, di visioni del futuro, vivo, bellissimo, di assoluta proprietà dell'ex uomo con la pistola.

L'esaltazione era massima, sublime, quando infine accadde.

Vedete, l'uomo a terra era esattamente uguale a quello in piedi. Non sto parlando di fratelli, di gemelli. Erano lo stesso uomo.

Dicevo: l'esaltazione era sublime quando infine accadde.
Era l'esaltazione di un uomo che può uscire dalla propria vita, dalle proprie responsabilità, dai propri sbagli. La sensazione di essere liberi nel senso più profondo. Liberi di ricostruire, di riprovare, di ripartire senza debito alcuno con la vita già vissuta. Liberi di illudersi di non dover più venire a patti con i propri sogni troppo presto.

Si. Decisamente l'esaltazione era sublime quando accadde. L'uomo in piedi, e con lui tutti i suoi pensieri, entrambe le sue gambe, l'unico suo sorriso, crollarono a terra.
Il tutto mentre il sangue, finalmente, cominciava a sgorgare dal corpo ucciso ed il vento continuava tranquillamente ad infastidire le foglie.

Non si può uccidere se stessi e sperare di sopravvivere.