giugullare

il viaggio per cui si parte non è mai il viaggio da cui si ritorna

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detesto gli ingegneri

Monday, December 05, 2005

S.P.D.M.V.

Faceva freddo quella sera.
Un freddo cane, a dirla tutta.
A me sembrava che il mondo stesse finendo.

Svoltai con piglio deciso in via Po, la Mole alle mie spalle era una presenza tanto invisibile nella nebbia quanto ingombrante nella mente. Il marciapiede, viscido quasi più di quella stramaledetta ragazza, si prese un mio piede e lo lanciò allegramente in aria.
Caddi a terra, dignitoso quanto la pensione minima, ma dalla mia bocca non uscì un suono. Decisamente quella era La Sera Peggiore Della Mia Vita: tanto valeva rassegnarmici.
Mi rialzai lentamente: la schiena mi stava ringraziando a modo suo per l’appuntamento con il pavimento che le avevo organizzato su due piedi. S.P.D.M.V., vi dicevo.

L’avete già avuta la vostra serata peggiore? Credetemi: se ci state pensando, NO.
Quando arriva ti riempie di così tante mazzate che non hai dubbi. La riconosci.

Ripresi a camminare, storto e sbuffante, e mi diressi verso Piazza Castello.
Salire in macchina. Ecco tutto quello su cui dovevo concentrarmi. Sedermi, girare la chiave, lasciarmi alle spalle città fredda e cittadine viziate.
E invece no: ovviamente. Avete presente la discesa del Po dai Murazzi? Quella piccola cascatella che l'acqua fa appena oltre il ponte? Vi è mai capitato di vederci dentro delle bottiglie vuote di detersivo che continuano, imperterrite, a girare e rigirare nello stesso punto senza decidersi ad abbandonare quella posizione di stallo?
Il mio geniale cervello stava facendo esattamente lo stesso: invece di concentrarsi sulla macchina, sulla partenza, sul problema del disarmo nucleare nel burundi, continuava a ruminare immagini di quella ragazza. Voci, gesti, spazzatura varia.
E mi faceva male. Tanto male.
La fine del mondo.

Sbuffai. Cercai con lo sguardo qualcosa a cui aggrappare i miei pensieri, qualcosa a cui appiccicarli almeno per un istante. Via Po era addobbata con le luci natalizie. Il giallo delle lampadine filtrava attraverso la nebbia diventando quasi un sussurro luminoso. Due voci davanti a me, troppo vicine, mi fecero arrestare di colpo.
Guardando in alto come un pollo, a momenti stavo andando a sbattere contro una coppietta, vigliaccamente abbracciata, appesa a quelle luci come un pesce all’amo.
“Cicci, ti amo” “Cicci, anch’io.”
Ma vaff! Mi tastai il cappotto ma, invece di trovarci una mazza miracolosamente apparsa per permettermi di sfogare la mia sacrosanta invidia, scoprii un bellissimo squarcio nella tasca sinistra.
Altro regalo della caduta di prima, probabilmente. E non era ancora neanche Natale.
Mancava esattamente un mese.

Schivai la coppietta, che mi lanciò appena uno sguardo, e accellerai il passo, slittando furiosamente con la suola di cuoio delle mie scarpe comprate per l’occasione.
Comprate per l’occasione. Occasione. Lei. Il mio fidato cervello non perdeva un colpo e, presa al volo l’opportunità, si stava rituffando nei ricordi.
Ricordi di quella simpatica creatura che un’intelligenza, sicuramente superiore alla mia, aveva messo sulla terra. Creatura che qualcuno aveva curato e protetto per ventisei anni, che l’aveva fatta studiare, imparare l’italiano, andare all’università, il tutto per fare si che io avessi l’opportunità di incontrarla.
E farmi mandare a stendere con un due di picche in una mano e un cellulare pieno di messaggi nell’altra.
Il cellulare!
Mi fermai di botto, quasi a metà di via Po, senza trovare il coraggio di controllare.
Vi ricordate? S.P.D.M.V.
Ed ero caduto: naturalmente il cellulare era nel cappotto.
Avevo trent’anni, trentuno per essere pessimisti, e non riuscivo a mettere la mano nella tasca interna del cappotto.
Capite in che stato ero?
Respirai. La mano partì, piano. Come un ninja Sali all’altezza del petto, silenziosa e implacabile.
Entrò tra i bottoni (e un pezzo di Alaska in miniatura entrò con lei, accidenti se faceva freddo!) e prese il cellulare dalla tasca interna.
Tutti dicono che il dentista tira via il dente con uno strappo, che l’infermiere pianta l'ago con un colpo preciso e veloce, così si soffre meno. Il mio dentista e il mio infermiere erano veramente dei fetenti e non l’anno mai fatto: quindi anch’io estrassi il cellulare con una lentezza spossante. Masochismo allo stato puro.

Il mio cervello stava facendo ragionamenti Ansa del tipo:
“Cellulare è aziendale: una certezza”
“Serata di colore marrone: altra certezza”
“Cellulare fracassato: una garanzia.”
Guardai il cadavere annunciato con un misto di commozione e rimorso.
...A prima vista il paziente respirava ancora!
Pigiai due o tre tasti e il colorito del paziente si accese. Sembrava in ottima salute!
Le serate passate a vedere ER si fecero apprezzare a quel punto: “potrebbe avere una emorragia interna e non presentare sintomi: magari non riceve più.”
Non avendo a portata di mano strumenti per una elettroscopia pariassale con dodici cc di atropina tentai di trovare una soluzione praticabile: magari avrei potuto mandare un messaggio a qualcuno chiedendogli di mandarmi un messaggio e se il messaggio non fosse arrivato magari sarebbestatoperchèl’altrapersonanoneraalcellulareinquelmomentoenonpercheilmioteleraspacc-BI_BIP
BI_BIP
Un messaggio. Piovuto come grazia dal cielo. Il cellulare si illuminò di azzurro e io d’immenso.
Funzionava. Alla faccia della S.P.D.M.V.!
Ero circa a metà di via Po. Vi ricordate? Poco prima di quel negozio che vende quintali di ferro travestito da orecchini anellini e collanine a forma di drago, teschi e altre dolcezze del genere.
Vi è chiaro il posto? Stampatevelo in testa.
Tra un pò vi spiego il perché.

Ma torniamo al Lazzaro dualband tornato dalla tomba con un messaggio.
Chi era quel santo che mi scriveva a quell’ora?
Stavo per riprendere a camminare pigiando sul tastino “apri messaggio” quando vidi chi mi aveva mandato l'sms.
E mi rifermai.
(ma ci sarei arrivato a 'sta macchina prima o poi?)
Chi mi aveva scritto era Lei.
La fanciulla.
La distributrice di picche.
E messaggini.

Tutti i santi che conoscevo, più o meno intimamente, e che non avevo fatto scendere prima per la caduta, li chiamai a raccolta in quel momento.
Ma santa polenta, mi aveva mandato a stendere dieci minuti prima sotto la Mole, cosa accidenti aveva ancora da aggiungere? Altre mollette?
“Mi dispiace davvero che tu abbia frainteso la nostra amiciz-MESSAGGIO DA COMPLETARE”
perché le donne non riescono a dire MAI le cose in 60 caratteri?
Bi-bip
Bi-bip
“ia ma per me è un valore importante e non posso credere che t-MESSAGGIO DA COMPLETARE”
120 caratteri. Ora, se qualcuna di voi si riconosce in questi comportamenti da pollice compulsivo vi ricordo che Sms vuo dire “Short message sistem”, non “Scrivo Molto. Si.”
Bi-bip
Bi-bip
“u voglia rinunciarvi. Mi sembrava una cosa importante.”
La mia mascella prese la via del pavimento. La schiena, dall’alto della sua esperienza, lanciò una fitta di comprensivo dolore.
Il mio cuore fece un altro “crick”.

Ho sbagliato quando prima vi ho detto che mi sembrava la fine del mondo. Stava finendo adesso, con un retrogusto di senso di colpa del sottoscritto, merda umana che non sapeva apprezzare La Grande Amicizia. La sensazione era Molto Peggiore.

Convinsi comunque le mie gambe a camminare. Un passo. Un altro.
“bel telefonino!”
Di nuovo fermo. Ma chi rompeva i-
Un simpatico coltellino puntava verso la mia pancia. Due allegri figuri, che non sto a descrivervi vista la loro chiara funzione in quella serata, cinque secondi dopo se ne stavano andando con il mio cellulare.
Ecco perché non si era rotto nella caduta.
S.P.D.M.V.

O.k. adesso è il momento di ricordarvi il punto preciso in cui vi ho detto che ero. Perché?
Perché se guardate sulla colonna dell’arco dei portici di fronte a quel negozio, più o meno a trenta centimetri da terra, trovate un segno nero. Abbastanza visibile.
Quello è il punto in cui mi sono rotto il mignolo del piede dando un calcio al muro.
Il punto preciso.
Ringraziai il mondo di avere varie religioni, perché in quell’occasione finii tutti i santi, martiri, figure di rilievo del cattolicesimo. E non ero ancora arrivato all’auto.

Indovinate un po' cosa feci?
Ripresi a camminare, zoppicando leggermente.
Vedete, un mignolo sano se ne sta zitto e buono nel suo angolino conscio di avere un ruolo marginale nelle vicende sentimentali di un pirla.
Un mignolo rotto, invece, si monta la testa.
Lo fa lentamente, non subito, ma man mano che tu cammini, lui prende coscienza che tu stai prendendo coscienza della sua esistenza. E passo dopo passo, oltre alla coscienza ci prende anche gusto, nell'essere considerato.
E vuole diventare il centro dell'attenzione.

Se continuai a cammiare fu perché ero così furioso che mi sarei staccato quel dito insignificante a morsi, piuttosto che fermarmi ancora una volta.
Qull’accidenti di macchina l’avrei raggiunta, prima o poi.

Cascasse il mondo.

Il dolore, in quelle stramaledette scarpe di cuoio, era bestiale. Due lacrime, seccate dal dover uscire con il freddo che faceva, si stamparono sulla mia bella faccia. Zoppicavo vistosamente.
La bocca era semidigrignata in una smorfia.
Nel complesso ero ridicolo.
E non dimentichiamo il cappotto nero, pezzato di marrone sulla schiena e con una tasca squarciata.

Se non altro, il mio cervello non era più sintonizzato sul canale del “quanto m’è dolce amaro gustare il calice della separazione dall’unico amore”.
Anzi, ogni mio singolo neurone (due in tutto) era concentrato, assorto, proiettato nella realizzazione di documentari dal titolo”Come le è caduta addosso la mole: un disastro annunciato?”
Le immagini del puntaspilli torinese che franava sulla sua bella faccina innocente, delle tonnellate di macerie che le accarezzavano le rubiconde guanciotte, quasi mi fecero sentire meglio. Sia ben chiaro: non era la fine del mondo, ma era già qualcosa.
Nobile persona, sono: vero?

In qualche modo arrivai finalmente a Piazza Castello. Non volevo nemmeno pensare a come accidenti avrei fatto a guidare fuori da Torino con quel piede. Non volevo pensare a come mi sarei coricato quella sera e a come mi sarei svegliato l’indomani.
Senza di Lei.
Non volevo pensare a niente. Ero arrivato all’auto. Un passo per volta e sarei anche arrivato a casa.
Via da li.
Sospirai. Ripresi fiato. Prima o poi il dolore alla gamba sarebbe finito.
Prima o poi anche L’ALTRO dolore sarebbe finito.
Finisce tutto, prima o poi.

Su questa perla di saggezza ghignai come un cinico esperto, presi le chiavi e aprii la portiera.

O meglio: ghignai.
Poi tentai di prendere le chiavi per aprire la portiera, ma non le trovavo da nessuna parte.
La consapevolezza mi colpì. Anche lei mi fece abbastanza male.

La tasca rotta. All’angolo con l’università.

Ero impietrito. Restai per un tempo imprecisato a fissare il vuoto, davanti a me, riempito solo per caso dalla strada che da piazza Castello porta alla stazione.
S.P.D.M.V.
Poi, su quella stramaledetta strada che da piazza Castello porta a Porta Nuova, passò anche lei sulla sua automobilina azzurra. Non era sola la dentro.
Passò, sempre nei paraggi, altro tempo: l’auto divenne un puntino, poi solo un leggero brusio di motore, poi più niente.
Io continuai a restare impietrito.
Scordate tutto quello che vi ho detto prima: quello fu davvero il momento della fine del mio mondo. E fece Molto, Molto, Molto più male.

Le lacrime ripresero a scendere, questa volta più convinte, e mi riempirono gli occhi.
Distolsi lo sguardo dalla strada e mi trovai a guardare la punta della mole, lontano laggiù, vicino (probabilmente) alle mie chiavi.
Tra le lacrime quella punta illuminata sembrava danzare, ballonzolare, quasi stesse davvero per crollare.
Mi asciugai senza farci caso gli occhi, continuando a guardare la Mole.
La punta continuava a ballare.
Presi mentalmente nota di questa incongruenza e alzai il braccio per ri-asciugarmi gli occhi. Mi fermai subito: erano Già asciutti.
La mole continuava la sua danza. E cominciai a notare che non era l’unica in pista: anch’io stavo ballonzolando.
Tutto stava ballonzolando.

La punta della mole si piegò come a vedere quanto alto fosse il salto e poi si buttò, staccandosi con un colpo netto. Ogni cosa, ogni palazzo, il castello, tutto si stava sfaldando ad un ritmo sempre crescente mentre un brontolio sordo saliva, cattivo, da “sotto”.
Pezzi di case si staccarono cadendo al suolo poi, per un attimo, mentre una luce nuova squarciava nebbia e tenebre, si sollevarono da terra librandosi in volo.
Infine, fu solo luce.
Il mondo, quello vero, quello sotto i nostri piedi, finì, quella sera, senza avvisare nessuno.
Finì fregandosene della coppietta, dei fregacellulare, del mio dolore e di Lei.
Finì senza preoccuparsi che mancavano esattamente trenta giorni a Natale. Trenta giorni che sarebbero mancati per sempre.
Il mondo finì davvero, quella sera, e quello fu Molto, Molto meno doloroso di quanto potessi pensare.

Anzi, quasi non me ne accorsi.



thobaru

desideri: 3

“anche la city sogna desiseri da realizzare senza accorgersi di realizzare desideri quotidianamente. Come noi”

DESIDERI duepunti 3.

“Odio Stefano.”
Odio tutta la classe di pragmaticamente razionali, razionalmente vincenti Ingegneri.
Ma partiamo dall’inizio.

Senza false modestie, ero veramente un ragazzo in gamba, (giuro!) ; pieno di speranze, grandi sogni e soprattutto desideri. Di quelli grandi, colorati e belli, tipo salvare il mondo, sposare una principessa bella, intelligente, ricca, diventare senatore a vita del Burundi.
Avevo un desiderio per ogni istante e un istante per ogni desiderio; in più amavo la vita come la più bella delle donne, ero allegro, spensierato e... beh, insomma, ero anche un gran bel pezzo di figliolo. Ok, leggermente calvo,leggera pancetta, leggermente pallido.
Bello dentro.
Ma, soprattutto, adoravo leggere.
Era la mia passione più grande; passavo ore ed ore, nei più remoti recessi della grande biblioteca pubblica di Torino cercando i libri più strani, più polverosi, più vecchi. Cose praticamente da buttare , il più delle volte anche per il contenuto.

Sapete cosa penso? La biblioteche sono come la city; gli enormi scaffai sono i palazzi e i libri gli appartamenti, ognuno pronto a raccontarti la vita di chi lo abita.
Ma questa è un’altra storia.

In ogni caso, fu così che lo trovai: scartabellando tra scaffali dall’equilibrio precario mentre il popolo degli ingegneri, belli abbronzati dal sole della scienza, osservavano e si preparavano a conquistare il mio mondo.

All'apparenza in quel libercolo non c’era niente di diverso rispetto agli altri volumi che scovavo solitamente...quindi era polveroso, sporco, vecchio e particolare.
Ma mai quanto lo era il suo contenuto.

La copertina era fatta di spessi fogli di pergamena compressi (puzzava anche un po’ a dirla tutta), la secolare polvere dell'oblio era riuscita solo parzialmente a distruggere l'intricato dedalo di simboli e rifiniture che ne ricoprivano ambo le facciate; da questo groviglio emergevano microscopicamente le lettere gotiche del titolo. "La cucina dell’800".

Tutto mi interessava tranne leggermi un polpettone ottocentesco sui polpettoni che si mangiavano gli ottocenteschi.

Quindi scartai immediatamente quell'inutile ammasso di fogli e, alle sue spalle, trovai un anonimo libricino. Rosso, sporco e consumato dai denti dei più assidui frequentatori di quelle sale.
Intenerito dal paragone con il suo fratello maggiore, lo presi e lo sfogliai con curiosità, anche perchè che non aveva titolo.

A questo punto è necessario fare una digressione. Altrimenti rischiereste di non capire il perché del mio gesto.
Io ero follemente, perdutamente, quellochevoletemente, innamorato di una ragazza.
Cotto perso.
Ci avevo passato le notti a chiacchierare insieme, le giornate a sognarla. Avevo versato più parole nelle telefonate con lei di quante ne seminano due schieramenti politici in campagna elettorale.
Davvero. Credetemi sulla parola.
Per lei avevo incominciato ad ascoltare il canto degli uccelli, percepire il profumo dei fiori: accidenti, avevo addirittura incominciato a trattar bene i colleghi di lavoro.
Cotto perso, dicevo.
Quindi, da buon sognatore, mi ero fatto vari polpettoni mentali su cosa provava lei per me, sul perché aveva fatto quella particolare cosa, qual particolare giorno, in quel particolare modo.
“…se lei mi ha lanciato uno sguardo, per 0,7 millesimi di secondo, inclinando impercettibilmente di qualche millimetro il labbro, in quello che fuori da ogni dubbio è un sorriso, allora vuol dire che…”
Chiaro, no? Cretinate di questo tipo.

Ed ero anche andato avanti a lungo, riassestando cuore e anima per farla entrare, perdendo notti di sonno per barattarle con parole, parole e ancora parole da sogno, e alla fine mi ero convinto.
Anche lei era totalmente preda di Cupido.
Al diavolo la pancetta.
Al diavolo la stempiatura.
Ve l’avevo detto che ero affascinante, no?
E così, una sera (sera col cavolo: era mezzanotte passata e l’indomani avrei avuto una riunione con il mio Giusto capo) sapendo che Lei mi avrebbe fatto lo squillo per la chiacchierata notturna, presi il coraggio a quattro mani, ingoiai la paura e decisi di dichiararmi.

Nei primi tre secondi di telefonata, Lei mi disse tutta allegra che si era messa con un ingegnere.
Il grande Stefano.
Stefano Primo di Razionalonia.
Grazie Dio. Tempismo perfetto.

Inutile che vi dica che Stefano era grande, grosso, belloccio (anche se per me somigliava un po’ a quello delle Iene) e stramaledettamente sicuro di se e del suo mondo.
Un Ingegnere.
Abbronzato.
Passione travolgente.
Grande complicità.
Inizio della loro storia.
Fine della mia digressione.

Per settimane, quindi, mi buttai a capofitto nel tentativo di capire come decifrare le pagine di quel libretto prima che si sbriciolassero tra le mie dita. Sia ben chiaro, soprattutto perché lei ormai si dedicava anima e corpo (cosa, la seconda, che mi dava leggermente più sui nervi) a quel gorilla rampante dal cervello incredibilmente ben mimetizzato tra tecnologia e razionalità.
Più mi addentravo in quella selva di parole più cresceva in me la convinzione che mi fosse capitato fra le mani lo scherzo deficiente di un simpaticone medioevale ormai incartapecorito come la carta del suo libro.

Dico questo perché quelle pagine avevano la pretesa di insegnare, in un latino maccheronico degno del miglior Trapattoni, come catturare un individuo del "piccolo popolo". Il tutto, teoricamente, avrebbe povuto essere possibile attraverso strani rituali come cerchi di fuoco e lingue di formica ripiene.
Ma non solo questo.
Interi capitoli, definiti molto importanti, si prodigavano nella spiegazione della personalità e della psiche degli gnomi, i quali dovevano essere lontanamente imparentati con alcuni dirigenti aziendali: burberi, intrattabili, repellenti a qualsiasi tipo di scherzo, solitari, scontrosi e ,per finire in bellezza, dotati di strani poteri tipo trasformare otto ore di lavoro in tredici.

Sognando le più orrende vendette nei confronti del king kong che aveva preso il mio posto nelle grazie della Mia Principessa, sprofondai nella lettura con un accanimento che non mi riconoscevo da tempo; appresi così come comunicare con loro, i loro gesti, le loro abitudini, i loro gusti in fatto di cibo e di donne.
Soprattutto, però, mi imbattei nei famosi TRE DESIDERI.

A dire il vero il libro era un pò vago su quest'ultimo punto, ma questa era una pecca trascurabile finché la lettura mi teneva lontano da pratice insane come il martellare a testate quadri e pareti, iscrivermi alla Cepu per diventare ingegnere Abbronzato in 24 lezioni, dilettarmi con il sushi (pratica in voga nell’antico impero giapponese che ha come caratteristica peculiare quella di svuotarti il portafoglio molto prima di riempirti la pancia), e sognare il gorillicidio…o meglio, il suicidio, dato che Gorillo era molto più grosso di me.

Non che prendessi davvero seriamente quanto affermava il libercolo, ma che altro avevo da fare?

Purtroppo, però, come tutto ha un inizio, così anche ogni cosa ha una fine: alla lunga,la cronica mancanza di paragrafi dedicati a esseri con gambe lunghe, capelli biondi e nomi che finiscono in …amantha fece sfumare la mia passione. Saltai così a piè pari e con la coscienza leggera i capitoli più noiosi, tra l’altro definiti “importantissimi” dallo sconosciuto autore, proseguendo oltre.

Il tempo passò senza guardarmi in faccia..
Il libro finì.

Non pensai più a ciò che diceva, mi dedicai alla lettura di altri manoscritti, alcuni dei quali recanti in copertina uno strano sigillo a forma di testa di coniglietto bianco; mi gustai l'autocompiangimento; inalai l'autoesaltazione...
provai ad ingoiare il rospo, insomma.
Feci di tutto e mi dimenticai di quel vecchio, inutile, libretto. E di Lei.
Almeno per un pò.
Perché dentro di me, leggermente più a destra della seconda curva a gomito delle mie budella, nascosta in silenzio, al buio, cresceva fino a pulsare di vita propria la voglia di provarci.
Provarci così, a evocare 'sti sgorbietti, senza particolari motivi. Considerando anche che, se fosse per caso stato vero, i tre desideri non erano cose da sottovalutare.

Ripensandoci ora, avrei davvero fatto meglio a non sottovalutarli.

Tornando alla storia, la voglia cresceva, ma per metterla in pratica ci volevano tempo e energie: due cose che non facevano propriamente rima con il mio stile di vita.
Così passò altro tempo. Altri sguardi non incrociarono il mio, altri dirigenti mi diressero rinforzando in me la certezza di una parentela gnomesca. La vita andava avanti, insomma, nella mia Torinocity immobile.
In realtà io non passavo il tempo inutilmente: ero un uomo d’azione. Cosa facevo? aspettavo, aspettavo, aspettavo. (La mia è sempre una azione passiva.)
Sapevo con certezza, una certezza conficcata in testa saldamente come lo scettro nella mano di un re, che lei sarebbe tornata da me.
Vi ho già detto le mie numerose qualità, no? Quindi perché non sarebbe dovuta tornare?
Ne ero sicuro quanto un albero di perder le foglie.
Finche non successe Quella Cosa.

Molti sono conviti che ci sia un motivo per ogni cosa, e che ogni grande evento sia accuratamente preparato, con i dovuti riguardi, dalla vita.
Se questo è vero, dovrei fare causa alla Calvè perché tutto, il mio tutto, successe perché il mio barattolo di manionese si rifiutava di fornire ulteriore prodotto dopo che il cucchiaio aveva toccato il fondo e pettinato le pareti.
I wrustel mi stavano guardando abbastanza scoraggiati dal pentolino e io non ero tipo da deluderli. Così scesi al supermercato sotto casa, pronto a fare incetta della mia droga salata..

Stavo prendendo con l’orgoglio di un cacciatore la mia preda, un barattolo così cicciolo e lucido che quasi gli avrei dato nome e lo avrei adottato, quando la vidi.
Lei e L’Ifame Razionatore insieme: e lui non squittiva ne grugniva gesticolando in cerca di una banana, ma anzi osava parlare con il linguaggio degli esseri umani.
E.
Lei.
Lo.
Ascoltava.
…Adorante.
Il rospo che avevo tentato di ingoiare uscì dalla mia bocca, portandosi dietro una mezza arca di noè, carogna su spalla compresa.
Gli occhi di lei sembravano i miei mentre guardavo la maionese.
Diseredai immediatamente il mio cicciotto figlio adottivo.
Tornai schiumante di Giusta Rabbia ai miei alloggi: dovevo intervenire.
Non prendetemi per pazzo: quella che sto per raccontarvi non fu la prima cosa che feci. Prima provai con rose, fiori, lettere. Telefonateannuncisussurripoesiesakertortmanzotinchenonsipuòdiredi NO.
Lei continuò a dirlo.
Provai la vena implorante, la vena adorante, quella matura e quella infantile; quella seria e quella deficiente.
Non avevo più vene e lei continuava a rispondere picche e ad accontentarsi del primate.
Ecco, fu allora che lo feci.
Avevo provato di tutto, tanto valeva disturbare l’antico popolo. Mal che fosse andata avrei passato un po di tempo pensando ad altro, senza contare che quel libro continuava ad assicurare di essere veritiero.
In ogni caso io provai: cosa avevo da perdere?
Allestire tutta la scenografia non fu nemmeno eccessivamente difficile: trovai un bel boschetto solitario in un paesino vicino a Mondovì, trovai la pietra piana assolutamente levigata posta al centro di una radura sotto la luna e accesi anche un cerchio di fuoco che non aveva niente da invidiare a un piccolo incendio. Poi incominciai a soffocare il piccolo incendio che voleva farsi invidiare da un grande incendio, infine, abbrustolito, sudato e soddisfatto, iniziai a recitare ad alta voce le formule di rito mentre qualcuno (che penso fosse il mio cervello) a voce bassa mi ripeteva che dovevo proprio essere un menomato mentale ( no, un gorilla travestito da essere umano)se credevo che quella pagliacciata fosse vera.

Era vera.

Tutto lo era, l'esistenza del piccolo popolo, la possibilità di catturarne un membro , i loro grandi poteri magici.
Purtroppo era vero anche tutto ciò che si diceva sul loro terribile carattere e sul loro profondo odio verso lo scherzo...
E ho proprio l'impressione che per quel buffo ometto il trovarsi imprigionato da uno sconosciuto che gli rideva in faccia gridando nell’ordine:
“E’ TUTTO VERO!”
“MO TI SISTEMO IO SCIMMIONE, TE E LA TUA RAZIONALITA’!”
“CERTO CHE SIETE PROPRIO DEI BASSOTTI BRUTTI, EH?!”
, in piena notte, in un cerchio di fuoco, sia stato interpretato come una specie di scherzo di pessimo gusto.

Dico questo perché ,vedete gente, lui mi diede veramente tre desideri: LETTERALMENTE.

Tutto quello che mi rimase dopo quella notte fu la possibilità di avere, e sottolineo la parola avere, tre desideri. Tutti gli altri cancellati lentamente come inchiosto da una macchia di alcool.

Ora, non so se ci avete mai pensato, ma noi, naturalmente, ogni giorno, DESIDERIAMO mangiare e DESIDERIAMO dormire.
Due desideri andati…
Naturalmente la regola era rigidissima: i desideri si sarebbero certamente realizzati.
Pensateci gente: qual è la prima cosa che DESIDERERESTE, nel momento in cui PRENDETE CONSAPEVOLEZZA di che razza di vita vi aspetterà?
Due desideri andati…e il terzo in canna.
Pronto a realizzarsi: non serve neanche la mira di un Ingeniere.


thobaru