S.P.D.M.V.
Faceva freddo quella sera.
Un freddo cane, a dirla tutta.
A me sembrava che il mondo stesse finendo.
Svoltai con piglio deciso in via Po, la Mole alle mie spalle era una presenza tanto invisibile nella nebbia quanto ingombrante nella mente. Il marciapiede, viscido quasi più di quella stramaledetta ragazza, si prese un mio piede e lo lanciò allegramente in aria.
Caddi a terra, dignitoso quanto la pensione minima, ma dalla mia bocca non uscì un suono. Decisamente quella era La Sera Peggiore Della Mia Vita: tanto valeva rassegnarmici.
Mi rialzai lentamente: la schiena mi stava ringraziando a modo suo per l’appuntamento con il pavimento che le avevo organizzato su due piedi. S.P.D.M.V., vi dicevo.
L’avete già avuta la vostra serata peggiore? Credetemi: se ci state pensando, NO.
Quando arriva ti riempie di così tante mazzate che non hai dubbi. La riconosci.
Ripresi a camminare, storto e sbuffante, e mi diressi verso Piazza Castello.
Salire in macchina. Ecco tutto quello su cui dovevo concentrarmi. Sedermi, girare la chiave, lasciarmi alle spalle città fredda e cittadine viziate.
E invece no: ovviamente. Avete presente la discesa del Po dai Murazzi? Quella piccola cascatella che l'acqua fa appena oltre il ponte? Vi è mai capitato di vederci dentro delle bottiglie vuote di detersivo che continuano, imperterrite, a girare e rigirare nello stesso punto senza decidersi ad abbandonare quella posizione di stallo?
Il mio geniale cervello stava facendo esattamente lo stesso: invece di concentrarsi sulla macchina, sulla partenza, sul problema del disarmo nucleare nel burundi, continuava a ruminare immagini di quella ragazza. Voci, gesti, spazzatura varia.
E mi faceva male. Tanto male.
La fine del mondo.
Sbuffai. Cercai con lo sguardo qualcosa a cui aggrappare i miei pensieri, qualcosa a cui appiccicarli almeno per un istante. Via Po era addobbata con le luci natalizie. Il giallo delle lampadine filtrava attraverso la nebbia diventando quasi un sussurro luminoso. Due voci davanti a me, troppo vicine, mi fecero arrestare di colpo.
Guardando in alto come un pollo, a momenti stavo andando a sbattere contro una coppietta, vigliaccamente abbracciata, appesa a quelle luci come un pesce all’amo.
“Cicci, ti amo” “Cicci, anch’io.”
Ma vaff! Mi tastai il cappotto ma, invece di trovarci una mazza miracolosamente apparsa per permettermi di sfogare la mia sacrosanta invidia, scoprii un bellissimo squarcio nella tasca sinistra.
Altro regalo della caduta di prima, probabilmente. E non era ancora neanche Natale.
Mancava esattamente un mese.
Schivai la coppietta, che mi lanciò appena uno sguardo, e accellerai il passo, slittando furiosamente con la suola di cuoio delle mie scarpe comprate per l’occasione.
Comprate per l’occasione. Occasione. Lei. Il mio fidato cervello non perdeva un colpo e, presa al volo l’opportunità, si stava rituffando nei ricordi.
Ricordi di quella simpatica creatura che un’intelligenza, sicuramente superiore alla mia, aveva messo sulla terra. Creatura che qualcuno aveva curato e protetto per ventisei anni, che l’aveva fatta studiare, imparare l’italiano, andare all’università, il tutto per fare si che io avessi l’opportunità di incontrarla.
E farmi mandare a stendere con un due di picche in una mano e un cellulare pieno di messaggi nell’altra.
Il cellulare!
Mi fermai di botto, quasi a metà di via Po, senza trovare il coraggio di controllare.
Vi ricordate? S.P.D.M.V.
Ed ero caduto: naturalmente il cellulare era nel cappotto.
Avevo trent’anni, trentuno per essere pessimisti, e non riuscivo a mettere la mano nella tasca interna del cappotto.
Capite in che stato ero?
Respirai. La mano partì, piano. Come un ninja Sali all’altezza del petto, silenziosa e implacabile.
Entrò tra i bottoni (e un pezzo di Alaska in miniatura entrò con lei, accidenti se faceva freddo!) e prese il cellulare dalla tasca interna.
Tutti dicono che il dentista tira via il dente con uno strappo, che l’infermiere pianta l'ago con un colpo preciso e veloce, così si soffre meno. Il mio dentista e il mio infermiere erano veramente dei fetenti e non l’anno mai fatto: quindi anch’io estrassi il cellulare con una lentezza spossante. Masochismo allo stato puro.
Il mio cervello stava facendo ragionamenti Ansa del tipo:
“Cellulare è aziendale: una certezza”
“Serata di colore marrone: altra certezza”
“Cellulare fracassato: una garanzia.”
Guardai il cadavere annunciato con un misto di commozione e rimorso.
...A prima vista il paziente respirava ancora!
Pigiai due o tre tasti e il colorito del paziente si accese. Sembrava in ottima salute!
Le serate passate a vedere ER si fecero apprezzare a quel punto: “potrebbe avere una emorragia interna e non presentare sintomi: magari non riceve più.”
Non avendo a portata di mano strumenti per una elettroscopia pariassale con dodici cc di atropina tentai di trovare una soluzione praticabile: magari avrei potuto mandare un messaggio a qualcuno chiedendogli di mandarmi un messaggio e se il messaggio non fosse arrivato magari sarebbestatoperchèl’altrapersonanoneraalcellulareinquelmomentoenonpercheilmioteleraspacc-BI_BIP
BI_BIP
Un messaggio. Piovuto come grazia dal cielo. Il cellulare si illuminò di azzurro e io d’immenso.
Funzionava. Alla faccia della S.P.D.M.V.!
Ero circa a metà di via Po. Vi ricordate? Poco prima di quel negozio che vende quintali di ferro travestito da orecchini anellini e collanine a forma di drago, teschi e altre dolcezze del genere.
Vi è chiaro il posto? Stampatevelo in testa.
Tra un pò vi spiego il perché.
Ma torniamo al Lazzaro dualband tornato dalla tomba con un messaggio.
Chi era quel santo che mi scriveva a quell’ora?
Stavo per riprendere a camminare pigiando sul tastino “apri messaggio” quando vidi chi mi aveva mandato l'sms.
E mi rifermai.
(ma ci sarei arrivato a 'sta macchina prima o poi?)
Chi mi aveva scritto era Lei.
La fanciulla.
La distributrice di picche.
E messaggini.
Tutti i santi che conoscevo, più o meno intimamente, e che non avevo fatto scendere prima per la caduta, li chiamai a raccolta in quel momento.
Ma santa polenta, mi aveva mandato a stendere dieci minuti prima sotto la Mole, cosa accidenti aveva ancora da aggiungere? Altre mollette?
“Mi dispiace davvero che tu abbia frainteso la nostra amiciz-MESSAGGIO DA COMPLETARE”
perché le donne non riescono a dire MAI le cose in 60 caratteri?
Bi-bip
Bi-bip
“ia ma per me è un valore importante e non posso credere che t-MESSAGGIO DA COMPLETARE”
120 caratteri. Ora, se qualcuna di voi si riconosce in questi comportamenti da pollice compulsivo vi ricordo che Sms vuo dire “Short message sistem”, non “Scrivo Molto. Si.”
Bi-bip
Bi-bip
“u voglia rinunciarvi. Mi sembrava una cosa importante.”
La mia mascella prese la via del pavimento. La schiena, dall’alto della sua esperienza, lanciò una fitta di comprensivo dolore.
Il mio cuore fece un altro “crick”.
Ho sbagliato quando prima vi ho detto che mi sembrava la fine del mondo. Stava finendo adesso, con un retrogusto di senso di colpa del sottoscritto, merda umana che non sapeva apprezzare La Grande Amicizia. La sensazione era Molto Peggiore.
Convinsi comunque le mie gambe a camminare. Un passo. Un altro.
“bel telefonino!”
Di nuovo fermo. Ma chi rompeva i-
Un simpatico coltellino puntava verso la mia pancia. Due allegri figuri, che non sto a descrivervi vista la loro chiara funzione in quella serata, cinque secondi dopo se ne stavano andando con il mio cellulare.
Ecco perché non si era rotto nella caduta.
S.P.D.M.V.
O.k. adesso è il momento di ricordarvi il punto preciso in cui vi ho detto che ero. Perché?
Perché se guardate sulla colonna dell’arco dei portici di fronte a quel negozio, più o meno a trenta centimetri da terra, trovate un segno nero. Abbastanza visibile.
Quello è il punto in cui mi sono rotto il mignolo del piede dando un calcio al muro.
Il punto preciso.
Ringraziai il mondo di avere varie religioni, perché in quell’occasione finii tutti i santi, martiri, figure di rilievo del cattolicesimo. E non ero ancora arrivato all’auto.
Indovinate un po' cosa feci?
Ripresi a camminare, zoppicando leggermente.
Vedete, un mignolo sano se ne sta zitto e buono nel suo angolino conscio di avere un ruolo marginale nelle vicende sentimentali di un pirla.
Un mignolo rotto, invece, si monta la testa.
Lo fa lentamente, non subito, ma man mano che tu cammini, lui prende coscienza che tu stai prendendo coscienza della sua esistenza. E passo dopo passo, oltre alla coscienza ci prende anche gusto, nell'essere considerato.
E vuole diventare il centro dell'attenzione.
Se continuai a cammiare fu perché ero così furioso che mi sarei staccato quel dito insignificante a morsi, piuttosto che fermarmi ancora una volta.
Qull’accidenti di macchina l’avrei raggiunta, prima o poi.
Cascasse il mondo.
Il dolore, in quelle stramaledette scarpe di cuoio, era bestiale. Due lacrime, seccate dal dover uscire con il freddo che faceva, si stamparono sulla mia bella faccia. Zoppicavo vistosamente.
La bocca era semidigrignata in una smorfia.
Nel complesso ero ridicolo.
E non dimentichiamo il cappotto nero, pezzato di marrone sulla schiena e con una tasca squarciata.
Se non altro, il mio cervello non era più sintonizzato sul canale del “quanto m’è dolce amaro gustare il calice della separazione dall’unico amore”.
Anzi, ogni mio singolo neurone (due in tutto) era concentrato, assorto, proiettato nella realizzazione di documentari dal titolo”Come le è caduta addosso la mole: un disastro annunciato?”
Le immagini del puntaspilli torinese che franava sulla sua bella faccina innocente, delle tonnellate di macerie che le accarezzavano le rubiconde guanciotte, quasi mi fecero sentire meglio. Sia ben chiaro: non era la fine del mondo, ma era già qualcosa.
Nobile persona, sono: vero?
In qualche modo arrivai finalmente a Piazza Castello. Non volevo nemmeno pensare a come accidenti avrei fatto a guidare fuori da Torino con quel piede. Non volevo pensare a come mi sarei coricato quella sera e a come mi sarei svegliato l’indomani.
Senza di Lei.
Non volevo pensare a niente. Ero arrivato all’auto. Un passo per volta e sarei anche arrivato a casa.
Via da li.
Sospirai. Ripresi fiato. Prima o poi il dolore alla gamba sarebbe finito.
Prima o poi anche L’ALTRO dolore sarebbe finito.
Finisce tutto, prima o poi.
Su questa perla di saggezza ghignai come un cinico esperto, presi le chiavi e aprii la portiera.
O meglio: ghignai.
Poi tentai di prendere le chiavi per aprire la portiera, ma non le trovavo da nessuna parte.
La consapevolezza mi colpì. Anche lei mi fece abbastanza male.
La tasca rotta. All’angolo con l’università.
Ero impietrito. Restai per un tempo imprecisato a fissare il vuoto, davanti a me, riempito solo per caso dalla strada che da piazza Castello porta alla stazione.
S.P.D.M.V.
Poi, su quella stramaledetta strada che da piazza Castello porta a Porta Nuova, passò anche lei sulla sua automobilina azzurra. Non era sola la dentro.
Passò, sempre nei paraggi, altro tempo: l’auto divenne un puntino, poi solo un leggero brusio di motore, poi più niente.
Io continuai a restare impietrito.
Scordate tutto quello che vi ho detto prima: quello fu davvero il momento della fine del mio mondo. E fece Molto, Molto, Molto più male.
Le lacrime ripresero a scendere, questa volta più convinte, e mi riempirono gli occhi.
Distolsi lo sguardo dalla strada e mi trovai a guardare la punta della mole, lontano laggiù, vicino (probabilmente) alle mie chiavi.
Tra le lacrime quella punta illuminata sembrava danzare, ballonzolare, quasi stesse davvero per crollare.
Mi asciugai senza farci caso gli occhi, continuando a guardare la Mole.
La punta continuava a ballare.
Presi mentalmente nota di questa incongruenza e alzai il braccio per ri-asciugarmi gli occhi. Mi fermai subito: erano Già asciutti.
La mole continuava la sua danza. E cominciai a notare che non era l’unica in pista: anch’io stavo ballonzolando.
Tutto stava ballonzolando.
La punta della mole si piegò come a vedere quanto alto fosse il salto e poi si buttò, staccandosi con un colpo netto. Ogni cosa, ogni palazzo, il castello, tutto si stava sfaldando ad un ritmo sempre crescente mentre un brontolio sordo saliva, cattivo, da “sotto”.
Pezzi di case si staccarono cadendo al suolo poi, per un attimo, mentre una luce nuova squarciava nebbia e tenebre, si sollevarono da terra librandosi in volo.
Infine, fu solo luce.
Il mondo, quello vero, quello sotto i nostri piedi, finì, quella sera, senza avvisare nessuno.
Finì fregandosene della coppietta, dei fregacellulare, del mio dolore e di Lei.
Finì senza preoccuparsi che mancavano esattamente trenta giorni a Natale. Trenta giorni che sarebbero mancati per sempre.
Il mondo finì davvero, quella sera, e quello fu Molto, Molto meno doloroso di quanto potessi pensare.
Anzi, quasi non me ne accorsi.
thobaru
Un freddo cane, a dirla tutta.
A me sembrava che il mondo stesse finendo.
Svoltai con piglio deciso in via Po, la Mole alle mie spalle era una presenza tanto invisibile nella nebbia quanto ingombrante nella mente. Il marciapiede, viscido quasi più di quella stramaledetta ragazza, si prese un mio piede e lo lanciò allegramente in aria.
Caddi a terra, dignitoso quanto la pensione minima, ma dalla mia bocca non uscì un suono. Decisamente quella era La Sera Peggiore Della Mia Vita: tanto valeva rassegnarmici.
Mi rialzai lentamente: la schiena mi stava ringraziando a modo suo per l’appuntamento con il pavimento che le avevo organizzato su due piedi. S.P.D.M.V., vi dicevo.
L’avete già avuta la vostra serata peggiore? Credetemi: se ci state pensando, NO.
Quando arriva ti riempie di così tante mazzate che non hai dubbi. La riconosci.
Ripresi a camminare, storto e sbuffante, e mi diressi verso Piazza Castello.
Salire in macchina. Ecco tutto quello su cui dovevo concentrarmi. Sedermi, girare la chiave, lasciarmi alle spalle città fredda e cittadine viziate.
E invece no: ovviamente. Avete presente la discesa del Po dai Murazzi? Quella piccola cascatella che l'acqua fa appena oltre il ponte? Vi è mai capitato di vederci dentro delle bottiglie vuote di detersivo che continuano, imperterrite, a girare e rigirare nello stesso punto senza decidersi ad abbandonare quella posizione di stallo?
Il mio geniale cervello stava facendo esattamente lo stesso: invece di concentrarsi sulla macchina, sulla partenza, sul problema del disarmo nucleare nel burundi, continuava a ruminare immagini di quella ragazza. Voci, gesti, spazzatura varia.
E mi faceva male. Tanto male.
La fine del mondo.
Sbuffai. Cercai con lo sguardo qualcosa a cui aggrappare i miei pensieri, qualcosa a cui appiccicarli almeno per un istante. Via Po era addobbata con le luci natalizie. Il giallo delle lampadine filtrava attraverso la nebbia diventando quasi un sussurro luminoso. Due voci davanti a me, troppo vicine, mi fecero arrestare di colpo.
Guardando in alto come un pollo, a momenti stavo andando a sbattere contro una coppietta, vigliaccamente abbracciata, appesa a quelle luci come un pesce all’amo.
“Cicci, ti amo” “Cicci, anch’io.”
Ma vaff! Mi tastai il cappotto ma, invece di trovarci una mazza miracolosamente apparsa per permettermi di sfogare la mia sacrosanta invidia, scoprii un bellissimo squarcio nella tasca sinistra.
Altro regalo della caduta di prima, probabilmente. E non era ancora neanche Natale.
Mancava esattamente un mese.
Schivai la coppietta, che mi lanciò appena uno sguardo, e accellerai il passo, slittando furiosamente con la suola di cuoio delle mie scarpe comprate per l’occasione.
Comprate per l’occasione. Occasione. Lei. Il mio fidato cervello non perdeva un colpo e, presa al volo l’opportunità, si stava rituffando nei ricordi.
Ricordi di quella simpatica creatura che un’intelligenza, sicuramente superiore alla mia, aveva messo sulla terra. Creatura che qualcuno aveva curato e protetto per ventisei anni, che l’aveva fatta studiare, imparare l’italiano, andare all’università, il tutto per fare si che io avessi l’opportunità di incontrarla.
E farmi mandare a stendere con un due di picche in una mano e un cellulare pieno di messaggi nell’altra.
Il cellulare!
Mi fermai di botto, quasi a metà di via Po, senza trovare il coraggio di controllare.
Vi ricordate? S.P.D.M.V.
Ed ero caduto: naturalmente il cellulare era nel cappotto.
Avevo trent’anni, trentuno per essere pessimisti, e non riuscivo a mettere la mano nella tasca interna del cappotto.
Capite in che stato ero?
Respirai. La mano partì, piano. Come un ninja Sali all’altezza del petto, silenziosa e implacabile.
Entrò tra i bottoni (e un pezzo di Alaska in miniatura entrò con lei, accidenti se faceva freddo!) e prese il cellulare dalla tasca interna.
Tutti dicono che il dentista tira via il dente con uno strappo, che l’infermiere pianta l'ago con un colpo preciso e veloce, così si soffre meno. Il mio dentista e il mio infermiere erano veramente dei fetenti e non l’anno mai fatto: quindi anch’io estrassi il cellulare con una lentezza spossante. Masochismo allo stato puro.
Il mio cervello stava facendo ragionamenti Ansa del tipo:
“Cellulare è aziendale: una certezza”
“Serata di colore marrone: altra certezza”
“Cellulare fracassato: una garanzia.”
Guardai il cadavere annunciato con un misto di commozione e rimorso.
...A prima vista il paziente respirava ancora!
Pigiai due o tre tasti e il colorito del paziente si accese. Sembrava in ottima salute!
Le serate passate a vedere ER si fecero apprezzare a quel punto: “potrebbe avere una emorragia interna e non presentare sintomi: magari non riceve più.”
Non avendo a portata di mano strumenti per una elettroscopia pariassale con dodici cc di atropina tentai di trovare una soluzione praticabile: magari avrei potuto mandare un messaggio a qualcuno chiedendogli di mandarmi un messaggio e se il messaggio non fosse arrivato magari sarebbestatoperchèl’altrapersonanoneraalcellulareinquelmomentoenonpercheilmioteleraspacc-BI_BIP
BI_BIP
Un messaggio. Piovuto come grazia dal cielo. Il cellulare si illuminò di azzurro e io d’immenso.
Funzionava. Alla faccia della S.P.D.M.V.!
Ero circa a metà di via Po. Vi ricordate? Poco prima di quel negozio che vende quintali di ferro travestito da orecchini anellini e collanine a forma di drago, teschi e altre dolcezze del genere.
Vi è chiaro il posto? Stampatevelo in testa.
Tra un pò vi spiego il perché.
Ma torniamo al Lazzaro dualband tornato dalla tomba con un messaggio.
Chi era quel santo che mi scriveva a quell’ora?
Stavo per riprendere a camminare pigiando sul tastino “apri messaggio” quando vidi chi mi aveva mandato l'sms.
E mi rifermai.
(ma ci sarei arrivato a 'sta macchina prima o poi?)
Chi mi aveva scritto era Lei.
La fanciulla.
La distributrice di picche.
E messaggini.
Tutti i santi che conoscevo, più o meno intimamente, e che non avevo fatto scendere prima per la caduta, li chiamai a raccolta in quel momento.
Ma santa polenta, mi aveva mandato a stendere dieci minuti prima sotto la Mole, cosa accidenti aveva ancora da aggiungere? Altre mollette?
“Mi dispiace davvero che tu abbia frainteso la nostra amiciz-MESSAGGIO DA COMPLETARE”
perché le donne non riescono a dire MAI le cose in 60 caratteri?
Bi-bip
Bi-bip
“ia ma per me è un valore importante e non posso credere che t-MESSAGGIO DA COMPLETARE”
120 caratteri. Ora, se qualcuna di voi si riconosce in questi comportamenti da pollice compulsivo vi ricordo che Sms vuo dire “Short message sistem”, non “Scrivo Molto. Si.”
Bi-bip
Bi-bip
“u voglia rinunciarvi. Mi sembrava una cosa importante.”
La mia mascella prese la via del pavimento. La schiena, dall’alto della sua esperienza, lanciò una fitta di comprensivo dolore.
Il mio cuore fece un altro “crick”.
Ho sbagliato quando prima vi ho detto che mi sembrava la fine del mondo. Stava finendo adesso, con un retrogusto di senso di colpa del sottoscritto, merda umana che non sapeva apprezzare La Grande Amicizia. La sensazione era Molto Peggiore.
Convinsi comunque le mie gambe a camminare. Un passo. Un altro.
“bel telefonino!”
Di nuovo fermo. Ma chi rompeva i-
Un simpatico coltellino puntava verso la mia pancia. Due allegri figuri, che non sto a descrivervi vista la loro chiara funzione in quella serata, cinque secondi dopo se ne stavano andando con il mio cellulare.
Ecco perché non si era rotto nella caduta.
S.P.D.M.V.
O.k. adesso è il momento di ricordarvi il punto preciso in cui vi ho detto che ero. Perché?
Perché se guardate sulla colonna dell’arco dei portici di fronte a quel negozio, più o meno a trenta centimetri da terra, trovate un segno nero. Abbastanza visibile.
Quello è il punto in cui mi sono rotto il mignolo del piede dando un calcio al muro.
Il punto preciso.
Ringraziai il mondo di avere varie religioni, perché in quell’occasione finii tutti i santi, martiri, figure di rilievo del cattolicesimo. E non ero ancora arrivato all’auto.
Indovinate un po' cosa feci?
Ripresi a camminare, zoppicando leggermente.
Vedete, un mignolo sano se ne sta zitto e buono nel suo angolino conscio di avere un ruolo marginale nelle vicende sentimentali di un pirla.
Un mignolo rotto, invece, si monta la testa.
Lo fa lentamente, non subito, ma man mano che tu cammini, lui prende coscienza che tu stai prendendo coscienza della sua esistenza. E passo dopo passo, oltre alla coscienza ci prende anche gusto, nell'essere considerato.
E vuole diventare il centro dell'attenzione.
Se continuai a cammiare fu perché ero così furioso che mi sarei staccato quel dito insignificante a morsi, piuttosto che fermarmi ancora una volta.
Qull’accidenti di macchina l’avrei raggiunta, prima o poi.
Cascasse il mondo.
Il dolore, in quelle stramaledette scarpe di cuoio, era bestiale. Due lacrime, seccate dal dover uscire con il freddo che faceva, si stamparono sulla mia bella faccia. Zoppicavo vistosamente.
La bocca era semidigrignata in una smorfia.
Nel complesso ero ridicolo.
E non dimentichiamo il cappotto nero, pezzato di marrone sulla schiena e con una tasca squarciata.
Se non altro, il mio cervello non era più sintonizzato sul canale del “quanto m’è dolce amaro gustare il calice della separazione dall’unico amore”.
Anzi, ogni mio singolo neurone (due in tutto) era concentrato, assorto, proiettato nella realizzazione di documentari dal titolo”Come le è caduta addosso la mole: un disastro annunciato?”
Le immagini del puntaspilli torinese che franava sulla sua bella faccina innocente, delle tonnellate di macerie che le accarezzavano le rubiconde guanciotte, quasi mi fecero sentire meglio. Sia ben chiaro: non era la fine del mondo, ma era già qualcosa.
Nobile persona, sono: vero?
In qualche modo arrivai finalmente a Piazza Castello. Non volevo nemmeno pensare a come accidenti avrei fatto a guidare fuori da Torino con quel piede. Non volevo pensare a come mi sarei coricato quella sera e a come mi sarei svegliato l’indomani.
Senza di Lei.
Non volevo pensare a niente. Ero arrivato all’auto. Un passo per volta e sarei anche arrivato a casa.
Via da li.
Sospirai. Ripresi fiato. Prima o poi il dolore alla gamba sarebbe finito.
Prima o poi anche L’ALTRO dolore sarebbe finito.
Finisce tutto, prima o poi.
Su questa perla di saggezza ghignai come un cinico esperto, presi le chiavi e aprii la portiera.
O meglio: ghignai.
Poi tentai di prendere le chiavi per aprire la portiera, ma non le trovavo da nessuna parte.
La consapevolezza mi colpì. Anche lei mi fece abbastanza male.
La tasca rotta. All’angolo con l’università.
Ero impietrito. Restai per un tempo imprecisato a fissare il vuoto, davanti a me, riempito solo per caso dalla strada che da piazza Castello porta alla stazione.
S.P.D.M.V.
Poi, su quella stramaledetta strada che da piazza Castello porta a Porta Nuova, passò anche lei sulla sua automobilina azzurra. Non era sola la dentro.
Passò, sempre nei paraggi, altro tempo: l’auto divenne un puntino, poi solo un leggero brusio di motore, poi più niente.
Io continuai a restare impietrito.
Scordate tutto quello che vi ho detto prima: quello fu davvero il momento della fine del mio mondo. E fece Molto, Molto, Molto più male.
Le lacrime ripresero a scendere, questa volta più convinte, e mi riempirono gli occhi.
Distolsi lo sguardo dalla strada e mi trovai a guardare la punta della mole, lontano laggiù, vicino (probabilmente) alle mie chiavi.
Tra le lacrime quella punta illuminata sembrava danzare, ballonzolare, quasi stesse davvero per crollare.
Mi asciugai senza farci caso gli occhi, continuando a guardare la Mole.
La punta continuava a ballare.
Presi mentalmente nota di questa incongruenza e alzai il braccio per ri-asciugarmi gli occhi. Mi fermai subito: erano Già asciutti.
La mole continuava la sua danza. E cominciai a notare che non era l’unica in pista: anch’io stavo ballonzolando.
Tutto stava ballonzolando.
La punta della mole si piegò come a vedere quanto alto fosse il salto e poi si buttò, staccandosi con un colpo netto. Ogni cosa, ogni palazzo, il castello, tutto si stava sfaldando ad un ritmo sempre crescente mentre un brontolio sordo saliva, cattivo, da “sotto”.
Pezzi di case si staccarono cadendo al suolo poi, per un attimo, mentre una luce nuova squarciava nebbia e tenebre, si sollevarono da terra librandosi in volo.
Infine, fu solo luce.
Il mondo, quello vero, quello sotto i nostri piedi, finì, quella sera, senza avvisare nessuno.
Finì fregandosene della coppietta, dei fregacellulare, del mio dolore e di Lei.
Finì senza preoccuparsi che mancavano esattamente trenta giorni a Natale. Trenta giorni che sarebbero mancati per sempre.
Il mondo finì davvero, quella sera, e quello fu Molto, Molto meno doloroso di quanto potessi pensare.
Anzi, quasi non me ne accorsi.
thobaru