giugullare

il viaggio per cui si parte non è mai il viaggio da cui si ritorna

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detesto gli ingegneri

Tuesday, October 01, 2013

l'ultimo cervo

l'ultimo cervo posò il primo zoccolo nella radura.
lo posò con eleganza noncurante. la stessa grazia che ha una donna quando ancora non sa di essere sbocciata.
la grazia di un mattino che pensa di esistere solo per dar spazio al sole.
lo zoccolo piegò l'erba con delicatezza, quasi in una carezza, con un fruscio timido e già morto nell'attimo in cui nasceva.
la radura era spoglia, libera da ogni albero, da ogni radice. pronta a gonfiarsi di sole e di cielo.
nella radura una pozza d'acqua.

Credo fosse fresca, sarebbe perfetto fosse stata fresca,  ma non saprei con certezza: non mi ci sono mai avvicinato.
al cervo piacque quello che il primo zoccolo sentì nel toccare la radura, così decise di muovere un secondo passo.
L'ultimo cervo posò il secondo zoccolo sulla terra scura.

non penso sapesse di essere l'ultimo, gli animali non sono dotati della maledizione della consapevolezza. Capire, comprendere a fondo le cose è una dote che raramente ama accompagnarsi alla serenità: l'amore abbina spesso strani compagni di viaggio.

Il secondo zoccolo trovò altra erba pronta ad inchinarsi di fronte a lui. Il manto del cervo ormai sporgeva in buona parte dall'oscurità del bosco e, giuro, luccicava nel sole.
il cervo alzò il muso al cielo e annusò l'aria. lo feci anch'io, spinto da un istinto irresistibile di sentire (per un attimo) quello che sentiva lui. L'aria si tuffò dentro di me: era fredda, bella come uno sguardo pieno di promesse intravisto tra la folla. gonfiai i polmoni, lentamente, riempiendomi di quella vita che fingevo di vivere.
Quella vita senza domande che fingevo di essere.

l'autunno stava finendo, l'inverno sarebbe arrivato senza farsi attendere troppo. prendetela come una metafora, se vi piace: lo spazio per le similitudini c'è tutto.
Il bello è che, se ci pensate, son pronto a scommettere che sia una gran metafora anche per la vita che state vivendo.

per la vita che stai vivendo.
com'è l'aria che hai nei polmoni ora? non è fresca, vero?

non rispondermi, non ha granchè importanza nel mio mondo.
trattenni il respiro, con i polmoni gonfi di quel cielo, e fissai lo sguardo sul cervo: dio, se era magnifico.
il muso, i muscoli, il profilo. tutto era grazia, tutto era equilibrio.

l'ultimo cervo posò il terzo zoccolo sull'erba umida.
quella bestia maestosa avanzava come se il quintale di corpo che si portava dietro fosse un aeroplano di carta lanciato da un balcone. privo di peso al punto da potersi quasi far beffe della gravità. del mondo sotto di lui.
ogni suo movimento sembrava concedere al mondo di non allontanarsi troppo. Per lui sembrava non essere un obbligo ma un favore scegliere di essere appoggiato alla terra.

evitai l'impulso di fissarmi i piedi, immersi in stivali immersi nel fango. Sapevo che se avessi provato a sollevarne uno il rumore sarebbe stato quello di un risucchio.
lo stesso rumore che fa l'acqua scendendo in un lavandino intasato.

l'ultimo cervo alzò il quarto zoccolo, spostandolo tra ombra e luce, tra il bosco e la radura.
esalai un sospiro. un fiato. minimo. leggero.
Eppure sufficiente a ricordarmi che ero l'intruso. il cervo alzò di scatto la testa, si irrigidì come il cielo in attesa che il tuono raggiunga il lampo. mi maledissi, mentre una goccia di sudore imperlava la mia stupida testa.
passarono istanti, quegli stessi maledetti istanti che passano mentre ti stanno succedendo le cose più terribili, e tu li senti passare sull'anima uno ad uno. Come lamette, come lumache che scivolano sulla pelle.
l'ultimo cervo era li, tre zampe a terra e una alzata, fiutando l'aria e cercandomi. cercando il mio sospiro.
io ero paralizzato, senza il coraggio di respirare, ancora travolto dalla bellezza di quello che avevo visto e dal pensiero che ora, in ogni istante, sarebbe potuto finire mentre io ne volevo ancora.
Con tutto me stesso, con la stessa fame di un cane rabbioso di fronte ad una preda, non volevo che quella bellezza finisse senza che io fossi pronto.
senza un mio comando.

Digrignai i denti, divorato da una rabbia senza nome per la mia stupidità, per l'ingiustizia del vivere per essere testimone di bellezze che, inevitabilmente, ci sfuggono tra le mani. bellezze che tentiamo con tutto noi stessi di fissare, fermare, e che ci sbeffeggiano sfumando tra le pieghe dei nostri pensieri, delle nostre vite.
  la punizione più subdola dei figli di adamo: scoprire la perfezione, l'estasi; comprenderla, per poi comprendere che non ne siamo padroni, ma in gran parte semplici spettatori. Possiamo andarcene prima che lo spettacolo finisca, ma non farlo durare più a lungo di quanto abbiano deciso gli autori.

Non so dire quanto durò quell'empasse, quell'agonia nell'attesa che lo zoccolo si posasse sull'erba o trascinasse via il cervo.

l'ultimo cervo posò il quarto zoccolo sulla radura. la radura lo accolse con tutto il calore che era riuscita a trattenere dall'autunno ormai vecchio.
silenziosamente, tornai a respirare. silenziosamente, l'ultimo cervo si avvicinò alla pozza d'acqua.
silenziosamente, chinò la testa per bere. silenziosamente, alzai il fucile.
silenziosamente, scese la sera mentre gli echi di un unico rumore si spensero in lontananza.