giugullare

il viaggio per cui si parte non è mai il viaggio da cui si ritorna

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detesto gli ingegneri

Tuesday, February 24, 2009

desire

l’ultimo raggio di sole stava cercando di sopravvivere al morso delle vette innevate, ma stava palesemente perdendo la battaglia, inghiottito un secondo alla volta dietro le montagne.
L’uomo con il volante in mano pensò per un attimo che questo è un mondo materiale: la luce non potrà mai vincere sulla roccia. Poi, mentre il buio, morbidamente, cominciava ad avvolgerlo, accese i fari e tirò dritto per la sua strada.

L’uomo con il volante in mano non era un individuo particolare, non aveva particolari aspirazioni nè particolari motivazioni. Era l’uomo ideale per essere messo su dei binari e vivere tutta la vita senza lasciare la strada tracciata.

L’uomo con il volante in mano era un normalissimo dipendente. Meccanico, per l’esattezza.
Stava per diventare un assassino.

L’uomo in questione, che d’ora in poi per comodità chiameremo Mario, stava seguendo da quando era salito in auto un pericolosissimo filo di pensieri riguardanti incongruenze, piccoli gesti, qualche carattere buttato li su un cellulare.
Il suo cervello, durante tutto il viaggio, si era perso in un meandro di stradine tortuose, strette, buie.
Stradine fatte di pietra, circondate- anzi soffocate- da vecchissimi palazzi diroccati che chiudono la vista. Viottole che si ostinavano a girare attorno ad un concetto – CORNUTO- senza accennare a voler arrivare alla meta.

Mario non aveva nessuna voglia di arrivare alla meta, parliamoci chiaro. Arrivare alla meta, in quel maledettissimo caso, significava uscire dai binari, uscire di brutto. Significava che la via maestra non aveva più niente da insegnare, che era piena di buche, che l’illuminazione faceva schifo e che pure i cartelli erano sbagliati.

Intanto l’auto procedeva, accellerando silenziosamente, lentamente, come lo strisciare di un serpente. Sul parabrezza, attirati dalla luce, miriadi di insetti si schiantavano,altrettanto silenziosamente. La natura è famosa per la silenziosità delle sue stragi…così come il pensiero.

Cornuto. Cornutocornutocornuto. Cornuto, caprone, cervo, f.o.t.t.u.t.o.
Le mani stringevano il volante come fosse un collo a cui togliere il respiro, le nocche che quasi esplodevano, bianche, contro la pelle tesa.
Il respiro era veloce, basso, entrava dalla bocca e usciva dal naso come un filo che cuce due lembi di tessuto. Quel respiro si buttava nei polmoni per tirar su, ogni volta, un po di buio, un altro pezzo di quel bizzarro puzzle che si stava costruendo, veloce, brutale, nella testa del nostro povero Mario.

Lei. Bastarda. Come aveva potuto?

Mario, diciamocelo, non era un mostro di sicurezza. E gli uomini sono come gli edifici: il terremoto fa restare in piedi quelli più forti, le piogge fan cadere quelli più deboli. Mario era decisamente sul punto di crollare.

La notte avvolgeva la macchina allo stesso modo in cui una vecchia coperta viene tolta da un armadio e buttata sul letto, la radio ormai non diceva più parole, ma buttava addosso a mario solo più sensazioni, ritagli di cornici in cui appiccicare la foto di Lei…e l’altro.

“Cornuto”. Quella parola usci dalle labbra di mario in un soffio, al pari di una scorreggia in un luogo pubblico. Il cervello di mario tentò di rimangiarsela, aveva fatto troppo rumore, ma ormai era tardi. La parola volteggiò nell’abitacolo oziosamente, incurante di quanto accadeva attorno a lei, e si andò ad appoggiare sul vetro dell’auto, proprio all’altezza degli occhi.

“Cornuto”

Già ho una vita di merda- le labbra dell’uomo si arricciarono- mi spacco il culo da mattina a sera in mezzo ad un mucchio di idioti – le labbra dell’uomo si arricciarono peggio di tapparelle in una giornata di sole- torno a casa e vivo per lei…e lei..e quella…niente. Le parole si rifiutavano di dare il giusto colore a quel paesaggio di sabbia che cresceva dentro lui.

Un uomo non nasce con degli schemi, non è uno stampo che può dare un solo disegno, ne un seme che può generare un solo tipo di pianta. Un uomo è un’accozzaglia di fili, ingarbugliati, intortigliati, che poco per volta, cuciono qualcosa.
Un maglione, una sciarpa, una coperta (quante volte avete visto persone “coperta”) a volte, un santo.
Altre, un assassino.

Mario, ammettiamolo, non era nemmeno lontanamente imparentato con un filosofo. Il suo cervello ragionava al pari di un cane ben addestrato. Questo è giusto, quello è sbagliato. Qui lecca, li mordì. Qualche regola, poche domande, meno risposte e nessuna, assolutamente nessuna eccezione.
Volete un buon vigile? Mario era perfetto. Volete un ottimo impiegato del fisco? Ancora mario.
Volete far le corna al vostro marito (sedici anni di matrimonio santiddio!)? Mario era una pessima scelta (come marito).

L’omicidio, però, è una gran brutta bestia da maneggiare. Ti si rivolta contro, tira a graffiarti la coscienza, ha la pretesa di cambiarti la vita. Quindi Mario non aveva una pistola sul sedile a fianco. Aveva qualche scheggia di vetro, ma troppo piccole per ammazzare qualcuno.
Mario era sull’orlo di qualcosa di nero, di buio, torbido.
Dannatamente possente.
Mario era comunque ancora su solido terreno sull’orlo e, per ora, il vento non era fortissimo.

Ma.

Andiamo, non fate i sorpresi, lo sapevate tutti che ci saremmo arrivati al “ma”. Che razza di racconto è se non c’è un ma che si rispetti? Se il cornutone frigna un po, si fa due pippe mentali e poi volta la macchina e torna indietro?
Naaaa.
Non c’è gusto.

"Gusto di sangue!. Che schifo!"
Il cervello dell’uomo al volante urlò queste parole al nostro Mario che, avvilupato nella sua stagnola di pensieri si stava mordicchiando le labbra un po troppo decisamente. La lingua perlustrò diligentemente la superfice della bocca, per saggiare l’entità del danno. Da bravo muratore diede due colpetti qui, uno la, e valutò che le condizioni dell’immobile potevano essere peggiori. Mario inghiottì sangue e saliva, e buttò giù.

Mario, l’uomo che teneva il volante, aveva un suo piccolo, modesto, meschino piano di vendetta.
I vetri che facevano compagnia all’autista sull’altro sedile erano quel che restava del vetro infranto.
La macchina era quella del cornutatore-perché non esiste una parola per descrivere il generatore di corna, in italiano?, pensò una parte del cervello- e Mario aveva intenzione di schiantarla da qualche parte.

Qualcosa tipo tu mi fotti la moglie e io ti fotto l’auto…
…il che potrebbe dirla tutta sul modo in cui mario vedeva sua moglie…
…e sul perchè delle corna allegramente sbocciate sulla sua testa.

Non era qualcosa a cui aveva pensato, qualcosa di premeditato. L’abbiamo chiarito, no, che mario non era un genio? Lui si era limitato a seguire la moglie in auto. Si era limitato a guardarla scendere davanti a quel ristorante- andiamo, mica un motel, mica trombano- e, da buon cagnolino, si era limitato a guardare l’atro scendere dalla propria auto, cingerla attorno alla vita-la MIA VITA- e portarla dentro.
Porci.
Porci schifosi.

Quindi, dopo una attimo di vuoto, dolce, dolcissimo vuoto prima della consapevolezza, era sceso, aveva fracassato il vetro dell’altra auto, aveva fatto partire il motore (con un ghigno, era la prima volta che il suo lavoro gli tornava così utile) ed era andato via. Nella mente solo l’intenzione di sfasciargli la macchina. Come tornare alla sua, di auto, come arrvarci…tutto questo sarebbe successo dopo, e non aveva grossa importanza.
Nella sua vita, al momento, non c’era spazio per il dopo.

Quindi mario guidava, nocche bianche sul volante, vetri buoni buoni al fianco, e tanti bei pensieri a far compagnia.

Cornuto!
Perché io?
La velocità dell’auto aumentava.
Perché IO?
La strada si ostinava ad avere curve nonostante la velocità.
PERCHE’! IO!
La notte continuava a ribadire che il proprio colore era il buio, non la luce di quei pallidi fari.

STUNNNN!

Brutto, bruttissimo suono. Un suono che gli entrò nel cervello passando dalla lamiera alla pelle, dalla pelle al sangue.
Stunnn.
Mario inchiodò e l’auto, con il parabrezza decisamente scheggiato, con il muso leggermente contorto, brontolò un pò e poi si fermò.

Stunnn. Non poteva essere. Le mani non volevano più lasciare quel volante, non volevano permettere al resto del corpo di uscire dall’auto. Di dare una forma, “un corpo” a quel maledetto Stunnn.

Ma le mani, alla fine, restano serve.
Mario scese dall’auto. Le gambe non tremavano.
Non ancora almeno.
Fece due passi verso Miss Stunnn. Si fermò.
C’era…qualcosa, a terra. Qualcosa contorto, ripiegato su se stesso. Qualcosa inzaccherato di rosso, che stava lentamente sporcando la strada con una lenta, inesorabile, macchia scura.

C’era Stunnn.
E Stunnn fu quello che il vento è per l’uomo sopra l’abisso, fu il movimento che spinge il cane a mordere, fu il sipario che mette fine ad una vita.
E che, come sempre, da il via ad un’altra.

Mario non c’era più. L’uomo al volante non c’era più. C’era un animale, alla guida di un’auto scassata, con tre certezze in testa.

“stunnn non si sarebbe mai più rialzata”

“Io non arriverò a domattina”

“ricordo benissimo l’indirizzo del ristorante…”

La macchina sgommò. E ripartì.
La radio suonava “desire” di Ryan Adams.

L’animale ghignò.

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